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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Walter Siti, Il contagio

[Mondadori, Milano 2008]

Se la grandezza di uno scrittore si giudicasse dalla fedeltà alle proprie ossessioni, pochi altri, oggi, potrebbero rivaleggiare con Walter Siti. Eppure è lo stesso Siti – o meglio: la voce, sempre penultima, che prende la parola nel romanzo – ad avvertire al termine del Contagio che «le sociologie cadono a pezzi, elencare non basta», e che una mappa ragionata potrà disegnarla «solo chi avrà la mente libera da ossessioni». E sì che la fine di Altri paradisi lasciava baluginare la possibilità, a conclusione della “trilogia”, di una pace raggiunta: «se avrò qualcosa da raccontare non sarà su di me».

Infatti il Contagio parte con baldanzoso piglio naturalista, quasi un reportage etnografico dall’altrove di una borgata romana. Ma ogni meraviglia (anche quella degradata: e qui le degradazioni decisamente non mancano) è strategia di possesso, proiezione fantasmatica. Parlando di fantasmi, primo tra tutti è quello di Pasolini, l’oggetto di culto di chi vede nelle borgate l’immagine nostalgica di un’autenticità perduta o, più in generale, di chi cerca un modello dietro cui nascondere la propria (di scrittori, di intellettuali) percepita marginalizzazione.

Il professor Walter nel Contagio, invece, prima si libera della sua collezione di «Meridiani» (tra cui, immagino, anche i dieci volumi dell’opera omnia di Pasolini curata da Siti…) per pagare le marchette di Marcello, poi pronuncia l’ormai celebre referto con cui ribalta la profezia del friulano: non sono le borgate che si stanno imborghesendo, ma è il borghese a essere sempre più simile al borgataro – «nel continuum indifferenziato di chi il mondo non sa più vederlo intero, è l’ideologia di quelli che una volta si chiamavano gli esclusi a risultare egemone»; il contagio è già avvenuto, ed è proprio su questa sistematica e ipertrofica epidemia mimetica che lavora il potere.

Ma questa è, appunto, sociologia. Nella seconda e più corposa parte, Siti abbandona ogni velleità di realismo, di una narrazione che in qualche modo prescinda dall’Io (come pretenderla dall’uomo che scriveva «io sono l’Occidente»? Cosa gli resterebbe da narrare, la Cina?): dalle proprie ossessioni non si scappa e l’agognata, non solo dal narratore della prima parte, «immersione nella realtà» si è rivelata «un tuffo in un’irrealtà fossile e attualissima».

Il genere romanzo, che di questo contagio mimetico è stato il laboratorio (allo stesso tempo paziente zero e antidoto), si ritrova superato proprio perché ormai tutto è romanzo: ma se l’Io è il campo di battaglia e la posta in gioco del progetto politico dell’Occidente, può anche diventare una legittima difesa (ed è qui la radicalità della scommessa politica, oltre che poetica, di Siti). Il suo “realismo dell’ossessione” popolato di zoliani moi experimental è una strategia molto più dirompente, oltre che esteticamente riuscita, di tanti altri che, limitandosi a “elencare” e voltando le spalle al romanzo, credono di raccontare la realtà. Ossessioni o no, pochi altri, oggi, possono rivaleggiare con Walter Siti.

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